Il blog Le Recensioni di Chiara ha indetto per Halloween un simpatico contest che mi ha coinvolto, portandomi a scrivere questo brevissimo racconto che mi ha portato fuori, per un po', da Alethya. Niente di speciale, ma a me piace il finale, quindi lo posto anche qui. Ditemi la vostra!
PRIMA DELL'ALBA
Dio Santo, sono occhi
quelli!
Non è un’illusione, non
può essere come quando la camicia appoggiata alla sedia ti appare come una
persona accucciata, perché riconosco il bianco delle pupille. Sono due punti
più chiari nell’oscurità della stanza, azzurrognoli per il riflesso della spia
del mio cellulare in carica. È questo particolare a farmi capire che sono
reali: riflettono la luce.
Non devo muovermi. Non
devo muovermi.
Il resto della forma
nera che sembra fissarmi, immobile davanti al nostro letto, è indefinita, ma
quegli occhi e la paura – la paura, sì, è soprattutto lei a farmi registrare i
particolari, per alimentarsene – mi suggeriscono contorni umani. Bambineschi. È
una figura minuta, che arriva forse all’altezza del lato inferiore dello
specchio alla parete. Le spalle cadenti, le braccia abbandonate lungo i
fianchi, il capo riccioluto e rigido.
Non ho il coraggio di
muovere altro che gli occhi. Temo che possa accorgersi anche di quelli e pure
del respiro che ha involontariamente cambiato ritmo, da quando mi sono
svegliato e l’ho intravisto. Provo a rallentarlo, a inspirare ed espirare con la
lentezza di chi dorme.
Le lenzuola mi sono
scivolate sulle gambe, lasciando scoperto il ventre. Persino la canottiera è
risalita e quel piccolo rettangolo di pelle esposta mi fa sentire vulnerabile.
Mi convinco che questa figura, chiunque sia, alla fine mi attaccherà proprio in
quel punto, proprio per quel punto
scoperto. Vorrei, dovrei coprirmi, nascondermi sotto le lenzuola fin oltre la
testa, come facevo da bambino quando avevo paura dei ladri. Ma allora lo facevo
al minimo rumore, al minimo, anomalo spostamento dell’aria, quando ero ancora
in tempo. Oggi no, è tardi, chi può farmi del male è già al mio cospetto e se
mi muovessi sarebbe ancora peggio. Perché saprebbe che sono sveglio e mi
farebbe ancor più male.
Non devo muovermi. Non
devo muovermi.
Vorrei aver lasciato la
porta aperta. L’orario proiettato sul soffitto – lo raggiungo a malapena
spingendo gli occhi all’insù, fin quasi a rovesciarli sotto le palpebre – dice
che sono le cinque passate e forse a quest’ora le primissime luci del mattino
mi darebbero un contrasto migliore, mi mostrerebbero questa figura per ciò che
è davvero. Forse scoprirei che sì, nonostante tutto è la solita illusione
ottica, troverei una spiegazione al riflesso su quelli che mi sembrano occhi e
potrei rilassarmi.
Ma la porta è chiusa e
il buio profondo della stanza è rotto solo da quella minuscola lucina sul
Samsung e dalla sua eco – sì, la definizione mi piace – dalla sua eco sdoppiata
dagli occhi della figura. Così non posso dirmi con certezza se quello che mi
sembra un braccio lo sia realmente, non posso tranquillizzarmi col pensiero che
sto solo interpretando un addensamento di ombre. Non prima che la sveglia
suoni, tra due ore, o che trovi il coraggio di accendere la luce.
Non devo muovermi. Non
devo muovermi.
Non avrei dovuto
chiamarlo bambino. Ora che l’ho fatto, non riesco a pensare che sia nulla di
diverso. I bambini fanno paura. Quanto sono carini e innocenti alla luce del
sole, tanto diventano terrificanti nel contesto sbagliato. Li usano un sacco
nei film proprio per questo, credo. E questo è un contesto sbagliato: è la mia stanza, è notte fonda e non ho
figli. Se anche li avessi, non se ne starebbero immobili, al buio, a fissarmi.
Teresa dorme al mio
fianco, tranquilla nonostante il respiro affannoso. Non aveva il raffreddore
ieri sera, non ricordo. Se solo si svegliasse... è stupido, è dannatamente
infantile, ma se si svegliasse spezzerebbe l’incantesimo che mi tiene in
scacco. Le racconterei della mia assurda paura come farei con un incubo e
rideremmo insieme prima di riprendere a dormire.
Ma Teresa dorme e io
non posso affidarmi solo alla mia razionalità per sottovalutare la figura che
mi osserva. L’esperienza mi suggerisce che queste cose non esistono, ma la
mente è meno forte e spavalda quando scendono le tenebre. E diventa bastarda e
malleabile, come la mia, che anziché mostrarmi l’assurdità del mio terrore
sembra piegarsi al volere di quest’ombra davanti a me e fa riaffiorare l’unico
ricordo che non serve.
Non devo muovermi. Non
devo muovermi.
Quattro anni fa, ormai.
Tornavo da una cena di lavoro alla quale non avevo bevuto. Scendevo dalla rampa
di uscita della tangenziale e mi immettevo nella grande rotonda, quindi
imboccavo la seconda uscita. Erano le tre del mattino e andavo abbastanza forte
perché ero stanco e non vedevo l’ora di mettermi sotto le coperte. Abbastanza,
ma non troppo forte, e con il pieno
controllo delle mie facoltà. Ma la musica era alta nell’abitacolo e cantavo per
tenermi sveglio.
Non so che cosa facesse
in giro a quell’ora quel signore col suo nipotino. So solo che lui si chiamava
Piretti e che il bambino aveva otto anni e che nessuno dei due si accorse che
un’auto era in arrivo, prima di attraversare incautamente fuori dalle strisce
pedonali e a ridosso dell’uscita dalla rotonda. Trovarono il vecchio senza vita
a una ventina di metri, nella boscaglia, mentre il bambino smise di respirare tra
le mie braccia, al centro della carreggiata. Lo sorressi fino all’ultimo,
cercando di trattenere le lacrime mentre gli parlavo per tranquillizzarlo.
Mi scagionarono dopo
due anni. L’accusa iniziale era di omicidio colposo, ma tutto indicava una mia
totale assenza di colpa. Persino un testimone di cui non mi avvidi allora, ma
che usciva dal bar poco distante e che aveva assistito all’episodio, raccontò
della leggerezza del vecchio e mi fece passare dalla parte della ragione. Ma io
non ho mai scagionato del tutto me stesso e ho passato inutili notti insonni a
chiedermi che cosa sarebbe successo se avessi tenuto il volume della radio più
basso, o se fossi andato meno veloce, o se avessi girato il volante del tanto
necessario a evitare i due pedoni.
Non devo muovermi. Non
devo muovermi.
Così, improvvisamente
sono certo che questo ai piedi del letto sia proprio quel bambino. L’altezza è
quella giusta, la corporatura anche. La rabbia che scorgo negli occhi sarebbe
giustificata, sebbene in quella terribile notte li avessi visti verdi e lucidi
di lacrime e comprensione e gonfi di speranza e fiducia nelle mie vuote parole
e... L’ho aiutato, l’ho sorretto, l’ho accompagnato nella sua agonia: ma al
volante ero io. L’ho strappato alla vita e merito il suo odio, qui e ora.
Merda! Un prurito.
Proprio sotto al naso. Non resisto, non resisterò. Non proprio adesso, non
posso muovermi. Cerco di resistere, ma il fastidio non passa, anzi sembra farsi
sempre più insistente. Storco il naso, stringo le labbra, tutte smorfie che il
bambino vedrà e ormai saprà per certo che non sto dormendo e potrà sfogare su
di me il suo desiderio di vendetta e chissà...
Lo starnuto arriva, ma
mentre mi abbandono allo stimolo, trovo il coraggio di allungare la mano e
premo l’interruttore della luce.
Voglio vederlo in
faccia, prima.