Nella prefazione a M@rcello, scrivevo che uno dei motivi che
mi aveva spinto a riprendere la scrittura era la sensazione di aver raggiunto
una fase della mia vita in cui ero “in attesa di spegnimento automatico per
inattività”. Una sensazione legata alla ripetitività di una vita che da
studente mi vedeva trasformato in lavoratore, con poco tempo da dedicare agli
interessi personali.
Ebbene, dal giorno in cui ho rimesso le mani su M@rcello si
può dire che non ho più smesso di scrivere. Quella sensazione, se mai avesse
voluto ripresentarsi, non ha avuto modo di riemergere perché, tra L’eredità,
alcuni racconti e l’inizio della saga di Alethya, le mie soddisfazioni in campo
creativo l’hanno tenuta a bada. La scrittura, assieme alla mia vivace famiglia,
era una delle armi a mia disposizione per combattere la routine.
Ma l’altro giorno ho fatto una scoperta in parte romantica,
in parte allarmante. Premetto che la situazione è la seguente: la saga di
Alethya è ufficialmente terminata; mi appresto a sottoporre all’editore il
secondo volume; ho concluso un racconto lungo che entrerà in una futura
raccolta (4 Vendette); ho iniziato un nuovo romanzo, dal titolo provvisorio
L’evoluzione della specie, con il quale cambio genere per tentare il grande
salto verso nuovi lidi. Ma se ne riparlerà nel 2017 almeno.
Ecco, dicevo, l’altro giorno ho scoperto una cosa. Da un
paio di settimane sperimentavo un disagio interiore a cui non riuscivo a dare
spiegazione. Una sensazione simile a quella che si prova quando si ha qualcosa di
incompiuto e continuamente rimandato. Il fatto è che, pur riflettendo e
analizzando la mia situazione, non trovavo nessuna questione irrisolta nella
mia vita. Moglie e figli sono a posto, al lavoro va abbastanza bene, ho
addirittura ripreso a uscire nei weekend assieme agli amici perché ora i
bambini sono grandicelli… Avevo terminato il racconto per 4 Vendette, come
dicevo, e avevo abbozzato le prime pagine del nuovo romanzo. Allora?
Beh, l’altra sera mi sono messo al PC e ho scritto quasi
cinque pagine. Ho proceduto in modo spedito e con alcune trovate originali. Ho
riletto il testo ed era buono. Una ottima notizia, se pensavo che nei giorni
precedenti l’inizio della nuova trama era andato avanti a singhiozzo e con
continui ripensamenti e… Tutto è diventato chiaro, anche se la certezza
assoluta l’ho avuta quando mi sono coricato per dormire e, finalmente, non ho
più sentito quel peso sullo stomaco, quella fastidiosa sensazione.
Avevo bisogno di scrivere, e scrivere bene.
Ho capito, insomma, che non era stato il malessere
indefinito a farmi sviluppare la storia de L’evoluzione della specie con una
certa lentezza, ma era la difficoltà stessa di dare “benzina” alla trama a
generare il senso di insoddisfazione. Ho capito che stavo sperimentando non
dico un blocco dello scrittore (avrei smentito il mio precedente post), ma una
fatica creativa che a lungo andare avrebbe potuto portare ad esso. Era qualcosa
di inaspettato fino a poco prima (il racconto lungo è stato partorito con una
facilità disarmante e con ottimi risultati) e di imprevedibile, alla luce delle
difficoltà narrative incontrate con il mondo fantastico di Alethya.
La questione è romantica e allarmante, dicevo. Romantica
perché esprime il legame scrittura-vita che tutti credono esista in uno scrittore,
o aspirante tale, e da cui a questo punto non posso dire di essere esente.
Allarmante perché mi conferma di come la scrittura sia passata da sogno
adolescenziale, a hobby, a necessità. Se prima scrivere mi difendeva
catarticamente dai “dolori” di ragazzo e poi mi è servito a dare colore alla
normalità di una vita da commesso e impiegato, ora la scrittura si è trasformata definitivamente da strumento a fine. Non si tratta più di scrivere per non essere triste, ma di
scrivere per essere felice. Una differenza sottile, ma pesante come un macigno.
Scrivere ed esistere sembrano diventati sinonimi, a questo
punto della mia vita.
O forse, senza che me ne rendessi conto, è sempre stato
così.
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