Il mio primo esperimento di "poesia" era un brevissimo e banalissimo componimento intitolato "Gli incubi sono meglio dei sogni" - quello che in ambito giornalistico si definirebbe un titolo freddo. In breve, spiegavo in rima come fosse meglio svegliarsi terrorizzati dagli zombie e scoprire che non esistono, piuttosto che aprire gli occhi e dover ammettere che l'esperienza gratificante che stavamo vivendo era solo frutto dell'immaginazione.
Questa breve premessa serve a introdurre una riflessione che mi ha impegnato più volte, negli anni, e che di tanto in tanto si riaffaccia alla mia mente. Non parlo del concetto espresso da quella infantile poesia, ma di qualcosa di più profondo, e filosofico forse.
I sogni sono la nostra finestra di collegamento verso il passato e il futuro, verso altre vite che potremmo vivere, che non vivremo mai o che in qualche caso stiamo vivendo, senza averne coscienza.
Che cosa determina la nostra percezione della realtà? O meglio: che cosa ci fa comprendere che siamo vivi? Io ritengo che siano le sensazioni, ma ancor più i sentimenti che ne derivano. Capisco di essere vivo quando soffro per la perdita di qualcuno, quando un bacio mi riempie di energia positiva, quando un tramonto o una melodia mi aprono il cuore. È quel che vedo e che tocco, ma soprattutto quel che sento.
Certi sogni trasmettono sensazioni analoghe, a volte anche più intense, di quelle che sperimentiamo nella vita reale. Chi ci assicura, allora, che quella che viviamo di notte non sia una vera e propria esistenza alternativa, o una di tante, a cui abbiamo accesso solo sporadicamente, grazie alle facoltà sconosciute della nostra mente? Se esistere è provare emozioni, come sostengo, allora il sogno è una diversa forma di esistenza.
Nei due anni successivi alla morte di mio nonno l'ho sognato varie volte. In una occasione, la sera dopo il mio compleanno, rispondevo al telefono e sentivo la sua voce. Si scusava per avermi fatto gli auguri in ritardo e mi diceva che comunque era contento di vedere che le cose mi andavano bene. In un altro sogno scoprivo invece che mio nonno era accanto a me e, alzandosi, mi veniva incontro e mi abbracciava. In entrambi i casi mi svegliai appagato, felice. Non di quella felicità derivante dal dire «Ho sognato il nonno». Io avevo rivisto mio nonno, lo avevo toccato, avevo interagito con lui in quella vita alternativa a cui il sogno mi aveva permesso di accedere.
In altre vite parallele io faccio un altro lavoro, conosco altre persone, vivo in Paesi diversi. Quelle vite per me hanno la stessa consistenza di quella in cui mi trovo ora, mentre scrivo: l'unica differenza è che questa la sperimento con costanza, le altre invece si manifestano di rado e per brevi intervalli. Ma sono sufficienti ad acquisire validità, dignità, e a farmi essere contento, pieno, perché ho la certezza che grazie ad esse la mia anima può esplorare tutte le possibilità dell'esistenza.
Uscendo ora dalla riflessione poetico-filosofica e riapprodando alla razionalità, potrei dire in coro con voi: «Dai, ma ci credi davvero o volevi riempire un post del blog?» Mi rendo conto che sono pensieri privi di fondamento, senza alcuna prova e per certi versi fantascientifici, ma sono altrettanto consapevole che ho piena libertà di crederci.
D'altronde, miliardi di persone credono in Dio e qualcuno ha mai provato che esista? Ma la vera domanda è: se una cosa ci fa sentire meglio, è davvero necessario dimostrarne la veridicità?
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