Quando avevo quindici anni, ai tempi in cui cominciavo a
frequentare assiduamente l’oratorio (con annessi e connessi, vedi esperienze
come animatore del grest e dell’ACR, primi passi nel gruppo teatrale, campi
invernali ed estivi in montagna, messe e incontri di preghiera come se non ci
fosse un domani), imparai da autodidatta a suonare la chitarra. Non diventai un
professionista, ma in breve riuscii a farmi inserire tra i “musicisti” del
coretto dei giovani in chiesa, nonché a intrattenere assieme ad altri amici
alcune serate musicali davanti al fuoco. In realtà, una sera arrivai anche a
salire su un palco con una chitarra elettrica e ad abbozzare un breve e
semplice assolo, ma questa è un’altra storia.
L’idea di mettermi davanti al libro di musica delle scuole
medie e di segarmi le dita fino a imparare l’esecuzione di tutti gli accordi
nacque dal dolore. Non un dolore fisico, ma il dolore psicologico derivante
dalla consapevolezza di procedere su una strada parallela rispetto alla musica.
Sono stonato. Molto stonato. Non al livello più basso dell’ipotetica
scala degli stonati, ma comunque abbastanza da creare fastidio se provo a
cantare.
Ecco, vedete, all’oratorio (prima) e anche fuori da quel
contesto (poi) sentivo gli amici cantare. Ne avevo alcuni che erano davvero
bravi, tanto bravi da vincere concorsi, da farti venire la pelle d’oca, da meritarsi
la standing ovation di un pubblico di centinaia di persone. Tanto bravi da
farmi piangere quando rivedevo le registrazioni dei primi musical del gruppo di
cui sono parte. Tanto bravi, in sintesi, da insegnarmi quanto la musica, e
principalmente nello strumento della voce umana, sia la forma di espressione
artistica che più direttamente raggiunge e accarezza le corde dell’anima. Se mi
concedete una similitudine biologica, la musica è come l’ATP, energia
direttamente spendibile.
Il dolore, la frustrazione, il senso di incompletezza che mi
coglieva in quelle occasioni e che ancora oggi non mi dà tregua derivano
proprio dalla impossibilità di accedere a questa forma di arte che è la musica.
Un concetto che può essere compreso fino in fondo se si ricorda che trasmettere
emozioni agli altri, per me, è uno degli obiettivi principali. Scrivo per
questo, in fondo, e ho cominciato a scrivere proprio perché colpito dal modo in
cui un testo scritto potesse emozionare.
La scrittura, appunto, potrebbe essere intesa come la mia
forma di espressione per supplire alle mancanze canore. Mentre scrivo, io
stesso la intendo in questo modo e doso le scelte stilistiche e
contenutistiche, le descrizioni e le vicende dei personaggi, tenendo a mente
questo obiettivo. Ma alla fine mi rendo conto di come l’immediatezza della
musica, unita alla sua profondità, non riuscirà mai ad essere eguagliata da un
libro. Ci potranno andare vicino una poesia, la quale comunque è meno
digeribile e accessibile, e un quadro, che però non riesce a trasmettere le
stesse emozioni, ma di sicuro non un romanzo, nemmeno il capolavoro del più
grande autore di tutti i tempi.
La lettura richiede tempo, predisposizione, comprensione,
concentrazione. Richiede immedesimazione, memoria, talvolta esperienza diretta
di ciò che si legge. La musica è immediata, veloce, leggera, evocativa, pregna
di significati. Là dove la lettura chiede uno sforzo al lettore, la musica si
dona completamente ai suoi ascoltatori e così si configura come pura emozione.
La lettura parla alla testa, la musica si rivolge al cuore.
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